Dicono che tra le categorie che si riprenderanno più facilmente da questa crisi ci saranno, oltre informatici e parrucchieri, anche psicologi, psicoterapeuti, psichiatri e compagnia bella per (r)accogliere tutti quelli che non potendo uscire di casa sono, ahimé, usciti di testa.
Una frase che ogni tanto rimbalza è: “cercatene uno bravo!”.

Ricevuto questo simpatico consiglio si può procedere in due modi: mandare l’incauto consigliere a quel paese, a patto che chiaramente sia nello stesso comune e lì ci abiti anche qualche fantomatico congiunto, oppure accettare di buon grado il consiglio probabilmente non richiesto e chiedersi innanzitutto: ma come faccio per trovarne “uno bravo”?

Immaginando che il numero di coloro che seguono la via numero due sia maggiore del 4% rispetto all’intero campione di recievers (che non vuol dire nulla, ma fa moderno) scrivo per dirvi che, ebbene sì, sono state fatte ricerche scientifiche vere su cos’è che fa sì che una terapia funzioni ed una no… e, surprise surprise, non dipende dall’età né dal sesso del paziente o terapeuta, e neanche dal metodo utilizzato, bensì dall’esistenza di un qualcosa che a un certo punto il paziente dice di non saper definire, il paziente perde il controllo dei suoi pensieri ed entra in uno stato di vulnerabilità e di ascolto del proprio istinto. Questo sembra essere il fattore chiave che determina se una terapia funzionerà o meno.

Quindi più che mandare qualcuno a cercarne uno bravo potrebbe essere più efficace di augurargli di trovare dentro di sé quella parte nascosta che lo rende più vulnerabile. Il nostro virus in questi giorni ce ne ha regalate a iosa. A noi scegliere cosa vogliamo farci con esse.

Ecco qui due referenze che mi sembrano interessanti.

(https://www.ted.com/…/brene_brown_the_power_of_vulnerabilit…)

(Gendlin, E.T. (1961). Experiencing: A variable in the process of therapeutic change. American Journal of Psychotherapy, 15 (2), 233-245.)